[FREE ROLE] L'Ultimo Assalto

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    Zac! Zac! Zac!

    Era il crepuscolo, la notte si avvicinava. Il freddo e sferzante vento si faceva più pungente ed intenso, probabilmente a breve sarebbe sopraggiunta l'ennesima tempesta di neve, ormai era inverno inoltrato e le temperature erano costantemente sotto lo zero, tutto il giorno, tutti i giorni, anche quando il sole picchiante, fattosi lago tra i banchi di nebbia, batteva in cielo. A quella latitudine non si scherzava, in pochi potevano vantarsi di sopravvivere in condizioni simili, al limite dell'umana sopportazione. Lui era uno di quelli. Mentre il vento si infrangeva sul suo colossale e possente corpo ricoperto da una pesante pelliccia d'orso, lui incurante, menava colpi netti e decisi con la sua enorme ascia per tagliare la legna. L'avrebbe usata per riscaldarsi. Con i muscoli tesi portava la sua arma al cielo per poi lasciarla discendere con violenza e veemenza, quasi fosse una mannaia decapitatrice: infondo anche questo era un allenamento per tenere il corpo caldo e i muscoli pronti. Quel gelo lo aveva temprato nel corso della sua vita, aveva reso il suo fisico incedibile, inarrestabile, una vera e propria macchina da guerra alta quasi due metri e talmente mastodontica da poter essere tranquillamente definita una montagna umana. I suoi muscoli erano gonfi, le nervature definite, robuste, capaci di sopportare carichi inumani. Una pallida luna che cominciava a farsi largo tra le nuvole illuminava con la sua fioca luce l'intonaco rosso con cui soleva pitturare la sua pelle. Il colore del sangue, il colore della furia, il colore della lotta. Era una pittura tribale che veniva tramandata da lungi nella sua gente.

    Si fermò. Era ora di rintanare prima di venire travolto. Il suo era un rifugio di fortuna, una baracca abbandonata in mezzo alla foresta, dimenticata da tutto e da tutti, lontana chilometri dal primo centro abitato, forse un vecchio riparo per cacciatori o nomadi ormai in disuso. Sinceramente non gli importava, ci era cresciuto in quelle zone, ci aveva passato una vita intera ai piedi di quelle montagne e sulle cime di quelle aspre vette ergo non ne era spaventato. Li conosceva meglio dei palmi delle sue mani, meglio delle rughe che aveva in fronte, meglio delle cicatrici che portava sullo statuario petto. Amava la solitudine, aveva errato per quei luoghi tutta la vita, aveva raccolto tutte le sfide che gli avevano offerto. Allo stesso tempo però andava orgoglioso di essere un Vaygr, un guerriero istruito alle armi ed alla guerra sin dalla tenera età, un condottiero valoroso che non aveva timore di nessun nemico, che non aveva timore di cadere in battaglia, che non era mai stato ferito di spalle, che sprezzante del pericolo si gettava nella mischia e martellava e tramortiva con colpi furenti ed irrefrenabili... ecco perchè quella sconfitta gli bruciava, gli bruciava così tanto, gli bruciava più delle escoriazioni che il giacchio poteva causare, più di una lama che poteva trafiggere la sua carne, perchè sì, sebbene fosse un gigante dalla forza inaudita, dalla pelle dura e dall'istinto bestiale era comunque un uomo. Il sol pensiero gli fece accigliare lo sguardo, uno sguardo già di per sé grottesco e truce.



    Sbatté la porta dietro di se per poi alimentare il fuoco buttandoci sopra i tronchi appena tagliati. Si sedette e cominciò a sorseggiare la sua birra mentre lo scoppiettio delle fiamme faceva da sottofondo. Era una bevanda di cui abusava nel periodo invernale, ma che inevitabilmente doveva sorseggiare per trovare ristoro e calore. Come detto, lui era un solitario, forse perchè aveva modi più animaleschi che civili. Rozzo, bruto e crudo era un duro sia sul campo di battaglia che nella vita di tutti i giorni. Quando lottava dava tutto se stesso, schiacciava per non essere schiacciato e in modo brutale finiva i suoi avversari, senza risparmiare un colpo del proprio arsenale. Ciò nonostante portava molto rispetto per il nemico, per questo dava il massimo: dal suo punto di vista chi moriva per mano di un condottiero audace e valoroso otteneva comunque una morte gloriosa e poteva aspirare a raggiungere il phanteon degli dei immortali.

    Eppure la sua furia distruttiva non era bastata, non quella volta, non quella notte. Troppi compagni aveva visto perire, troppi scudi spezzati dalle lance dei nemici, troppe giovani vite strappate ad un futuro di ascesa. I compagni in battaglia li considerava come fratelli, soprattutto se combattevano per un fine altissimo quale la protezione e la libertà della propria terra. Quando il sistema ninja vigeva ancora, lui non ne aveva mai fatto parte, ne si era mai interessato di politica o cazzate simili, ciò nonostante non aveva mai esitato a scendere in prima linea durante le guerre veramente importanti e sanguinolente, forse più per mettersi alla prova e per rispetto dei propri avi che per reale interesse nel proteggere le sue genti. Sapeva solo che quegli imperiali gli stavano sul cazzo e che avrebbe vendicato tutti i compagni periti per mano loro. Infondo nessun Vaygr era mai stato veramente un ninja, ne aveva capito perché quei bastardi fossero venuti ad impossessarsi delle loro terre. Lui era dell'idea che ogni popolo dovesse essere il proprietario di ciò che la natura gli aveva donato. Era un violento, vero, ma la sua violenza non era scellerata ed incontrollata come quella degli imperiali.

    Sorseggiò la sua birra, gli occhi persi nel vuoto guardavano al di fuori della finestra mentre la sua mente tornava indietro... Quelle scene continuavano a passargli davanti agli occhi. Erano vive, più che vive. Si alzò, andò a sedersi davanti al libro...





    Edited by mrxxx - 30/5/2015, 19:18
     
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    "Ero su quella barca con i miei compagni, i miei fratelli. Non li avevo mai visti prima di allora, non li avevo mai conosciuti, non tutti per lo meno, ma in loro scorreva lo stesso sangue che scorreva in me. Avevamo gli stessi avi in comune, per questo non potei dire loro di no, non potei resistere al loro richiamo e quando mi chiesero di aiutarli io decisi di scendere in prima linea, accanto a loro, pronto ad una vittoria memorabile o ad una morte altrettanto gloriosa. Morire non ci spaventava, anzi, ad essere onesti eravamo eccitati dall'intraprendere una sfida con scarse possibilità di successo. Noi Vaygr siamo così: siamo guerrieri purosangue, duri sino alle ossa e i veri duri affrontano l'impossibile, impavidi si ergono di fronte al Fato avverso, sfidando naso a naso la sorte. Avremmo ribaltato quel pronostico con la forza dei nostri muscoli, con i colpi micidiali delle nostre pesanti armi.

    Eravamo in mezzo al mare ormai da giorni, circumnavigando le coste di Ephiora. La direzione era una sola: Aethernia. Non ci sarebbe stato un viaggio di ritorno, non per noi. Andavamo lì a conquistare, andavamo lì ad uccidere, andavamo lì a tentare il tutto per tutto. Il nostro comandante supremo aveva pianificato l'ultimo disperato assalto, l'ultima funeraria marcia prima di entrare nelle grazie dei nostri divini dei. Avevamo deciso di sferrare un attacco diretto mentre la maggior parte dell'esercito dello Shogunato (così si chiamava una volta), attaccava la grande Nimthor. Speravamo solo che quelli sarebbero resistiti abbastanza a lungo da darci una chance.

    Il mare era mosso, irrequieto, quasi come se sapesse quello che di li a poco sarebbe successo, ma noi in cuor nostro eravamo calmi, tranquilli, forse troppo. Eravamo salpati in 666 dalle coste di Neithlung con 6 navi da guerra, i più impavidi, i più valorosi, rappresentavamo il numero degli Inferi, il numero del male, il numero della morte. Parlavamo poco ma ci guardavamo spesso a vicenda e posso giurare sul mio onore da guerriero che mai una volta ho visto gli occhi dei miei fratelli dubitare, mai una volta li ho visti timorosi o titubanti, mai una volta ho visto in loro un ripensamento. Mai ho avvertito un cedimento! Eravamo pronti a tutto. Freddi e glaciali come le terre che ci avevano partorito, racchiudevamo la tensione dentro i nostri cuori: l'avremmo fatta esplodere al momento opportuno. I nostri sguardi erano decisi e carichi, fieri ed irremovibili: bramavano sangue, bramavano morte!"





    Edited by mrxxx - 30/5/2015, 19:19
     
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    "Le nostre colossali navi da guerra sfrecciavano veloci sul mare mosso da grandi onde che non ci impensierivano, perchè noi Vaygr, esperti naviganti, sapevamo perfettamente come affrontarle. Più ci avvicinavamo all'obiettivo e più l'oceano si faceva irrequieto e la tempesta infuriava sulle nostre teste. Era come se gli dei volessero avvisarci, era come se ci stessero comandando di tornare indietro, eppure noi non gli demmo ascolto, non quella volta. Impavidi e sprezzanti del pericolo, guardavamo verso l'orizzonte, ansiosi di menare colpi e di mozzare teste: i nostri muscoli erano tesi, i nervi pronti a scattare. Non avremmo avuto alcuna pietà.

    Il piano era semplice: ci saremmo avvicinati quanto più possibile al porto sfruttando la copertura della notte. L'oscurità unita ai grandi banchi di nebbia che il nostro comandante supremo sapeva creare dal nulla sarebbero bastati a rendere quel porto a portata di cannone. In realtà non era un vero e proprio piano, si basava molto sull'improvvisazione dato che non avevamo ne una cartina ne una planimetria della città: lo scopo era sbarcare il più velocemente possibile e prendere possesso degli edifici più importanti, primo tra tutti il castello ove risiedeva il fottuto comandante degli invasori, appellato dagli stessi il Messia.

    Prima di entrare a portata di cannocchiale avevamo provveduto persino a nascondere una barca al di sotto del livello del mare. Sì, incredibile a dirsi, eravamo capaci anche di questo noi. Quella barca ci sarebbe servita al momento opportuno, ma sapevamo che le nostre cinque corazzate erano più che sufficienti per mettere a ferro e fuoco un porto. La fortuna fu dalla nostra parte: probabilmente nessuno di quei farabutti imperiali si sarebbe mai aspetto un'offensiva tanto massiccia quanto improvvisa. Cercarono di resistere all'assalto, cercarono di ribattere alle nostre cannonate con cannonate ancora più forti, talmente forti che furono in grado di abbattere gli scafi rinforzati delle nostre navi. Erano scafi fatti apposta per riuscire a sfondare i ghiacci, per resistere alle sferzate contro gli iceberg, ma non abbastanza resistenti da sopportare le gigantesche palle di pietra scagliate dai nemici. Eppure riuscimmo lo stesso ad arrivare a riva, a sbarcare. Era solo l'inizio.

    Il momento della verità sarebbe presto arrivato e noi lo attendavamo finendo di spalmarci l'intonaco da guerra. Chi rosso, chi blu, ciò che contava è che quella vernice ci identificava come figli dei ghiacci, quello stesso ghiaccio che imperava nei nostri cuori, quello stesso ghiaccio che immobilizzava chiunque avesse osato incrociare i nostri sguardi, sguardi crudi, sguardi brutali, sguardi fissi sulla preda. Sguardi vichinghi.



    Non ci fu bisogno di un discorso per caricarci. Il cielo su di noi tuonava e ruggiva, la pioggia cadeva come macigni sulle nostre teste. Era la conferma che anche la natura era dalla nostra, anche la natura provava l'euforia e l'adrenalina che stava inebriando i nostri corpi. Respiravamo profondamente, i nemici, dall'alto delle mura, ci scagliavano banchi di frecce che se fosse stato giorno sarebbero state capaci di oscurare il sole. Noi ci difendevamo a meraviglia. Io, che non avevo uno scudo con cui proteggermi da quella dannata pioggia di ferro, venni protetto da un mio fratello. Non avevo ancora cominciato a menare fendenti e già gli dovevo la vita. Quando arrivammo vicino a riva, quando i nostri ponti di legno furono in grado di ancorarsi al suolo, si sarebbe generato un boato di guerra, un boato talmente imperioso da coprire l'assordante frastuono dei tuoni e riecheggiare nell'aria! Eravamo arrivati, i barbari si sarebbero abbattuti su Aethernia! "





    Edited by mrxxx - 30/5/2015, 19:20
     
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    "Non potevo aspettare di discendere dal ponte, fremevo troppo dalla voglia di ammazzare qualcuno, per questo mi gettai in mare e nuotai fino a riva. Bagnato ed incazzato, urlavo come una bestia inferocita, urlavo assieme agli altri: creavamo un frastuono ed un fragore epico, che unito alla pesantezza dei nostri passi generava una vero e proprio fenomeno distruttivo, più travolgente di un terremoto, più impressionante di uno tsunami, più scatenato del vento soffiante. Cercarono di chiudere i cancelli per isolare il porto, non avrebbero mai e poi mai osato sfidarci faccia a faccia, avevano paura, una fottutissima e paralizzante paura, ma noi fummo più veloci di loro, noi della squadra di assalto avevamo una voglia irrefrenabile di spaccare e nessun cancello, per quanto blindato ed imponente, sarebbe mai riuscito a resistere alle martellate di sfondamento delle nostre ciclopiche armi.

    Appena messo piede sulla terra ferma, nonostante il porto fosse veramente enorme e la città si estendesse su quasi tutta la penisola, riuscimmo a scorgere in lontananza un edificio immenso, altissimo, bianco: un castello. Eravamo più che sicuri che il loro comandante risiedesse là. Quella era la nostra direzione e nonostante, come detto, non avessimo un piano preciso per impossessarcene e sembrassimo semplicemente dei folli scalmanati guidati solo dall'ira più cieca e crudele, in realtà eravamo ben organizzati ed ognuno di noi 666 svolgeva un compito ben preciso all'interno della compagine. Eravamo stati divisi in cinque squadroni. Due squadre pesanti di assalto, una squadra deputata al supporto a media-lunga distanza, una squadra tattica e ricognitiva ed una squadra nelle retrovie tra cui spiccavano abili curatori che repentinamente medicavano le ferite di chi stava in prima linea.

    Io, ovviamente, stavo nel primo squadrone di assalto, in prima linea, a spezzare le ossa di quei bastardi. Il nostro compito era scontato: dovevamo farci largo tra le strade della città, travolgendo con le nostre lame qualsiasi nemico, abbattendo e radendo al suolo gli edifici lungo la strada in modo tale che l'esercito nemico non potesse accerchiarci e colpirci così di spalle. Gli impatti delle nostre armi erano poderosi, capaci di demolire in un solo colpo salde e sfavillanti strutture pietra. Eravamo inarrestabili, incontenibili, impetuosi.



    Aethernia, la città immortale, periva sotto i nostri fendenti d'ascia, sotto la nostra euforica e tremenda avanzata. Nessun soldato imperiale riusciva ad opporsi a noi: venivano schiacciati, tartassati e maciullati. Le loro carni non potevano resistere alla nostra barbara collera, i loro arti venivano mozzati, le loro teste decapitate. Urla tremenda e truci risuonavano nell'aria, urla di terrore profondo, urla di panico e sgomento, urla che alimentavano ancora di più il nostro tripudio."



     
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    "Invincibili, avanzavamo senza sosta, travolgendo tutto ciò che incontravamo. Le nostre mastodontiche armi ed armature facevano paura, i nostri tribali disegnati con l'intonaco sui nostri statuari corpi e i nostri elmi dotati di lunghe corna agli occhi del nemico ci facevano sembrare demoni spietati venuti dagli inferi per reclamare le loro anime. Loro ci guardavano terrorizzati, noi li guardavamo con insopprimibile iracondia, perchè la guerra, per noi Vaygr, era un momento sacro.

    Il nostro lavoro era estenuante, sebbene l'adrenalina che scorresse nelle nostre vene non ci facesse avvertire la fatica. Ci davamo spesso il cambio, alternandoci con la squadra di assalto secondaria, in modo tale che chi stava in prima linea fosse sempre fresco e riposato, inoltre non abbattevamo mai tutti gli edifici lungo la strada ma ne lasciavamo alcuni intatti, i più alti e massicci, per permettere agli arcieri della squadra di supporto di arrampicarvici sino in cima e coprirci le spalle dall'alto. Quelli della squadra tattica e ricognitiva invece avevano formato piccoli gruppetti di tre o quattro individui e si spingevano sempre un paio di chilometri più avanti a noi in modo da studiare il territorio, fare una bozza sommaria della planimetria della città, e consigliare così al nostro comandante quale fosse la strada migliore da intraprendere. Era lui che prendeva la decisione finale e noi delle squadre d'assalto lo ascoltavamo sempre, senza indugio, perchè sapevamo che era il più valoroso tra noi, perchè sapevamo che era un tipo prudente e che pertanto non avrebbe mai rischiato inutilmente le nostre vite, perchè sapevamo che ci avrebbe guidati alla vittoria!

    In generale comunque la nostra era una corsa contro il tempo: sapevamo che più ci avremmo messo, più il nemico si sarebbe organizzato. Inoltre la città era divisa a livelli: c'erano mura concentriche man mano che ci si avvicinava al castello ed ogni volta erano più colossali e difficili da espugnare, forse perchè la stanchezza si faceva avvertire maggiormente. Fatica ed ardore, coraggio e devozione, sangue e sudore. Questo era ciò che avevamo speso sul campo di battaglia, questo era ciò che ci aveva permesso di superare tutte le avversità, perchè sì, sebbene fossimo irrefrenabili guerrieri, eravamo comunque esseri umani ed avevamo subito ferite e squarci nel mezzo della mischia, sebbene il bruciore per il dolore che aveva causato l'Impero fosse ben superiore al bruciore causato da quelle aperture sulle nostre carni. Intinti del rosso vitale dei nostri corpi mischiato al rosso dei nemici schizzato sui nostri volti, arrivammo sin dove nessun altro esercito aveva mai osato spingersi..."







     
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    "L'ultimo cancello era stato sorpassato, l'ultima guarnigione abbattuta, ed eccola, la gigantesca piazza che si apriva dinnanzi al castello, un immenso castello di bianchissimo marmo che sembrava risplendere nonostante il cielo fosse terso di grigio. Lo avevano costruito in quella maniera, con quelle guglie scintillanti che puntavano verso il cielo, quasi volessero ostentare la loro purezza e la loro genuinità. Stronzate. Era solo un fottuto simbolo. Nemmeno l'acquazzone che imperversava sulle nostre teste sarebbe bastato a ripulire il marcio che si celava dentro a quelle mure. La pioggia che cadeva si mischiava al nostro sudore, dandoci un minimo di ristoro, perchè sapevamo perfettamente che di li a poco sarebbe cominciata la parte difficile di questa guerra. Era dura ammetterlo, dannatamente dura, ma eravamo finiti nella trappola del nemico: ad attenderci in quella immane e vastissima piazza c'era un intero esercito!

    Nonostante la città fosse immensa, lungo la strada per giungere al cancello non avevamo trovato così tanta resistenza armata o per lo meno le guarnigioni di uomini che si erano prostrati davanti a noi, non erano minimamente stati in grado di tenerci testa. Ma qui la situazione era ben differente. Disposti a semicerchio, c'erano schierati talmente tanti uomini che le gocce di pioggia cadente sembravano anche poche. Erano il triplo, che dico, forse il quadruplo se non il quintuplo di noi. Tutti i soldati di Aethernia erano racchiusi in quella piazza. E se sino ad ora non ci erano venuti incontro, se sino ad ora ci avevano aspettati in quel punto, era perchè volevano farci affaticare, stancare e perdere energie, ma soprattutto sapevano che in quel grande spazio la superiorità numerica sarebbe contata. Sino ad ora infatti il nostro comandante ci aveva fatto attraversare strade non troppo larghe, proprio per far si che potessimo sfruttare la nostra potenza. Tuttavia, in uno spazio aperto, la potenza di un singolo poteva essere eguagliata dalla quantità di molti, inoltre quelli sembravano tutt'altro che semplici guarnigioni. Erano ben organizzati e avevano i ranghi serrati.

    Ansimavamo profondamente. Era stata una lunga corsa, ma i nostri sguardi non avevano perso l'intensità ed il vigore iniziali. Le nostre braccia erano ancora pronte a menare colpi veementi. Notavamo che alcuni di loro avevano armi che brillavano di una strana ed opaca luce violastra: a quelli dovevamo stare attenti. Si mormorava infatti che l'Impero fosse riuscito ad espandersi in tutte le terre del mondo conosciuto e a sconfiggere gli eserciti di tutti i Paesi proprio grazie a quelle particolari armi formate da una lega metallica sconosciuta, battezzata “vibranium”, ed imbevute di un altrettanto sconosciuto tipo di chakra, capace, alla lunga, di danneggiare il metallo delle altre armi con cui entravano in contatto. Inoltre tra di loro si distinguevano chiaramente guerrieri i cui corpi erano irrorati di energia, visibile sotto forma di un'aura. Non sarebbe stato facile, ma eravamo pronti a tutto.

    C'era silenzio, un silenzio interrotto solamente da lampi e saette nel cielo. Un silenzio interrotto dalla comparsa di un uomo. Nessuno di noi lo aveva mai visto prima, ma fu facile intuire chi fosse. Era lui, il comandante supremo di quei bastardi, il loro imperatore, il loro fottuto Messia. Si presentò con il nome di Raziel, ma a dire il vero nessuno di noi riuscì a notare i lineamenti del suo viso in quanto tutto il suo corpo era avvolto da una forte luce bianca. Parlava dall'alto di un edificio, da dietro il suo esercito. Cagasotto.

    Troppo sangue è stato versato e sarebbe un peccato sprecare quello di valorosi guerrieri come voi. La cultura Vaygr mi ha sempre affascinato, il culto per la lotta e per il valore, tuttavia non c'è alcun valore nella morte. Per questo vi chiedo, vi supplico, depositate le armi e unitevi a noi. Mettete la vostra forza ed il vostro coraggio al servizio della giustizia. Un'era si sta per chiudere, con la caduta ormai prossima della grande Nimthor, si aprirà un periodo illuminato e splendente. E voi siete i benvenuti nella nostra utopica società, potrete alimentarla del vostro spirito condottiero. Il mondo sta andando in una direzione nuova, non fermate l'avanzamento, non fermate il progresso, non ostinatevi a retrocedere.

    E sapete il nostro valoroso comandante, che non si nascondeva come quello lì, ma stava davanti a tutti noi, come rispose a quell'insulsa offerta di alleanza? Non una parola, non un sussulto. Caricò di elettricità il suo mastodontico spadone e glielo lanciò contro. L'arma venne respinta dal monarca, ma quel simbolo, quella lama, quel fulmine che volava verso un uomo rigonfio del male che aveva causato segnava l'inizio di una nuova carica!"



     
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    "Paura? Nel nostro antico vocabolario non esisteva la traduzione per una parola simile. Quelli potevano anche essere più di noi, ma la cosa non ci spaventava affatto, anzi, ne eravamo compiaciuti. Una leggenda Vaygr recitava infatti che solo dopo aver sconfitto almeno 66 nemici in una battaglia è possibile avere un accesso privilegiato nel Phanteon degli dei immortali. Quei nemici erano anche pochi da questo punto di vista, e soprattutto, sebbene non sembrassero intimoriti dai nostri barbari aspetti, nelle loro vene non stava scorrendo la rabbia e l'ira che scorreva nelle nostre. Nel loro cuore non stavano pulsando sensazioni di estrema fierezza ed ardore derivate dall'appartenenza ad un popolo che non aveva la minima intenzione di chinare il capo di fronte ad un esercito che era riuscito nell'apocalittica impresa di piegare il mondo intero. No, non ci saremmo piegati per nessuna ragione: le nostre possenti spalle erano abbastanza robuste da sopportare l'avanzata di tutti quegli uomini che provavano a schiacciarci. Urlando come demoni inferociti ci gettavamo all'attacco. Non saremmo rimasti schiacciati, quelli schiacciati dai nostri brutali ed immondi fendenti sarebbero stati loro. Troppa intesa c'era tra noi fratelli di battaglia, troppo solenne era la nostra causa per poter perire di fronte a quegli irrispettosi profanatori di terre. Se credevano che fossimo affaticati, avremmo mostrato loro che la fatica è solo il momento in cui un uomo tira fuori gli attributi!

    Fiumi di sangue scorrevano sulle nostre lame, ci muovevamo sul campo di battaglia con pesantezza ed efficacia, con destrezza e letalità. Non un fendete veniva sprecato. Le mie spalle vennero coperte più volte da quell'uomo con lo scudo che già una volta mi aveva salvato la vita e io lo ricambiavo facendo saggiare agli avversari che provano a ferirlo il sapore della mia ascia. I nostri stregoni avevano avuto la brillante idea di creare uno strato di ghiaccio su tutto il terreno e di invadere l'aria con correnti di vento sferzante. Loro non erano abituati a combattere in quelle condizioni climatiche: scivolavano, cadevano e pativano il freddo, alcuni venivano addirittura congelati vivi. Noi invece, che in quelle condizioni al limite dell'umana sopportazione ci eravamo cresciuti, non avevamo alcun problema a destreggiarci su quel tipo di terreno.

    Non lasciateli respirare, non risparmiatevi, non fategli espirare le ultime preghiere! Uccideteli e mandateli all'inferno tutti quanti!

    Le parole del nostro comandante imperavano nella mischia. Volevamo prenderci la testa di quel bastardo che con arroganza e sufficienza ci guardava dalla sua balconata. Ci aveva risparmiato la fatica di andarlo a cercare. L'odore di cadaveri si fece presto presto pesante ed acre, ma tra quei cadaveri, purtroppo, iniziavano ad esserci anche quelli dei nostri compagni. Ogni perdita per noi era come un macigno che colpiva i nostri cuori, sebbene i nostri volti freddi e glaciali continuassero ad emettere ruggiti e non provassero un minimo di compassione o pietà. Non sembravamo toccati dalle perdite dei nostri compagni, dei nostri fratelli, eppure ogni volta che con la coda dell'occhio vedevo uno dei miei consanguinei venire trafitto in me, così come negli altri, la furia e l'irrequietudine ribollivano, facendoci diventare ancor più desiderosi di vendetta e di sangue.



    Quella battaglia era un qualcosa di apocalittico ed immondo. Vite spezzate, uomini che mostravano il loro lato più oscuro, malvagio e cruento. Emozioni e sentimento sembravano non appartenere a nessuno. Non so nemmeno come potrei descrivere così tanta morte e distruzione, così tanta atrocità e nequizia. Ricordo solo che l'istinto più selvaggio ed il sadismo più spietato avevano completamente preso possesso della mia anima ed inebriato i miei sensi. Volevo solo combattere, volevo solo sgozzare, sopprimere ed annientare vite umane. Non avevo orrore ne avevo angoscia di finire all'altro mondo. Trucidavo le budella dei miei nemici e speravo di diventare il loro incubo più inquietante. Mi rasserenavo solamente quando vedevo i loro sguardi da duri contorcersi in un'espressione di estrema ansia, terrore e sgomento nel momento in cui con fermezza conficcavo la mia lama nelle loro carni.
    "



     
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    "Urla inferocite e strazianti si alzavano nell'aria. Cercavamo di fare particolarmente attenzione ai guerrieri che maneggiavano le armi violacee, evitando di farle entrare in contatto con le nostre per non rovinarle o disgregarle. Allo stesso tempo provavamo a concentrarci sui nemici che emanavano un'aura fuori dal comune perchè sapevamo che loro erano le nostre spine nel fianco più acuminate. Tenergli testa era tremendamente dura, eravamo completamente esausti. Combattevamo nonostante fossimo sfiniti, anche quando ogni movimento iniziava a diventare una vera e propria sfida per i nostri muscoli, sin quando...

    ETERNAL AND PURIFYING PEACE

    Queste parole tonarono e rimbombarono nell'aria. Tutti quanti alzammo lo sguardo verso quella balconata, verso quel Messia, il quale, dopo aver congiunto le mani a mo di preghiera, aveva alzato le braccia al cielo e pronunciato quelle parole. Per un attimo, tutti si fermarono, per un attimo, il silenzio più tombale discese sul campo di battaglia: le nuvole si aprirono, il cielo si schiarì, penetranti fasci luminosi squarciarono quel manto grigiastro nel cielo per posarsi delicatamente sul terreno dove stavamo combattendo. La tempesta, che sino a qualche istante prima stava infuriando sulle nostre teste, come per magia si fermò improvvisamente. La luce ed il calore di quei fasci luminosi erano talmente intensi che furono addirittura in grado di sciogliere in pochi attimi lo strato di ghiaccio creati dai nostri stregoni, i quali, stupefatti, restarono a bocca spalancata ad osservare e contemplare quel cielo dogmatico. Che si trattasse di un miracolo?



    Mi rincresce ammetterlo, ma quella luce caduta dal cielo era più che un semplice effetto scenico. Aveva un non so che di candido... era in grado di penetrare la pelle, di penetrare l'anima e di irradiare i nostri cuori, nonché le nostre menti. Era come se d'un tratto, incredibile a dirsi, tutti quanti noi avessimo perso la nostra grinta e la nostra cattiveria, era come se volessimo deporre le armi e smettere di combattere. Non so perchè stesse succedendo, non so perchè quella sensazione di pietà e compassione stesse avvolgendo i nostri rudi e barbari spiriti, tuttavia era incredibilmente ostico resistervi. Non solo. Sotto quella luce celestiale, i nemici feriti ed a terra, che sino a qualche minuto prima non erano più in grado di combattere ed erano dati per spacciati, si stavano rialzando in piedi, quasi stessero risorgendo. Le loro mortali ferite sembravano essersi parzialmente richiuse e i loro animi sembravano rinvigoriti e gasati da quella luce. Com'è possibile che la situazione si fosse ribaltata così rapidamente? Com'era possibile che avremmo dovuto di nuovo mettere al tappeto gente che avevamo battuto con sacrificio e fatica? Come avremmo potuto continuare a combattere con gente che sembrava fresca e pronta a tutto? Eravamo sconcertati ed anche confusi. Solo uno tra noi, il più valoroso, il nostro comandante sembrò capire quello che stesse succedendo e sembrò non esserne impensierito, per quanto ugualmente impressionato.

    Non cedete a questa sensazione uomini! NON CEDETE!

    Le sue parole ci diedero coraggio. Non eravamo ancora finiti, non eravamo ancora morti!"



     
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    "Rinvigoriti, i nostri nemici ci attaccavano con foga rinnovata, mentre a noi, a stento, cercavamo di resistere con le poche energie rimasteci in corpo. Fu un genocidio. Continuarono ad attaccarci senza sosta sino a quando ridussero le nostre cifre a due sole unità: ci decimarono. Ricordo che venni martoriato più volte dalle loro armi violacee e nonostante la mia armatura fosse spessa ed inscalfibile, venne trafitta e spaccata da armi più piccole, armi che avrebbero dovuto fargli solamente un graffio. Non so come questo fosse possibile, ma la realtà era che quel Messia aveva da solo ribaltato la situazione del suo esercito. Quelli spacciati eravamo diventati noi. Il nostro comandante ci intimava di resistere, di rimetterci in piedi, di morire con onore e gloria. Anche se la nostra carne era aperta e le nostre ossa spezzate, ci rialzavamo, e continuavamo a lottare, guidati più dall'istinto di sopravvivenza e dalla follia interiore che dalla ragione. Ormai non sentivamo più niente, non pativamo più niente, eravamo come un esercito di zombie che impavidi si lanciavano all'assalto pur sapendo che presto sarebbe giunta l'ora della loro morte. Sputavo sangue, la mia testa era pronta ad incontrare l'eterno falciatore, eppure mi rialzavo e lottavo. Lottavo e lottavo. Non avrei dato loro la mia schiena, no, quella sarebbe rimasta immacolata.

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    E poi, quando meno me lo aspettai, un meschino avversario cercò proprio di trafiggermi alle spalle. Scorretto. Non aveva avuto il coraggio di affrontarmi faccia a faccia. Bastardo. Aveva ucciso un mio fratello. Quell'uomo dal grande scudo che in più di un'occasione mi aveva salvato la vita, mi salvò anche questa volta, solo che il suo scudo non fu abbastanza resistente da opporsi al potere penetrante dell'arma violacea di quel bastardo, la quale trapassò lo strato di ferro rinforzato dello scudo per poi infilzare il cuore del mio fratello d'armi. Il sangue mi si gelò nelle vene. Avrei dovuto morire io al suo posto, non lui. Lui, valoroso guerriero che aveva una famiglia ad aspettarlo a casa, si era immolato per me, uomo solitario e egoista.

    Fa in modo che la storia non si dimentichi di noi, di alla mia famig...

    Ma non fece in tempo ad esalare le sue ultime richieste che la sua anima lasciò il suo corpo. Quella fu l'unica volta in vita mia che le lacrime solcarono il mio volto mentre combattevo. Combattere lo avevo sempre ritenuto dilettevole, piangere lo avevo sempre considerato da deboli. Eppure quella volta mi venne naturale. Erano anni che non piangevo, nemmeno ricordavo l'ultima volta. Ma non me ne vergognai, non in quella circostanza, non per quella persona. Anche se le ginocchia mi cedevano, lo avrei vendicato, avrei vendicato quell'uomo che non stava lottando solamente per diletto o per proteggere gli interessi della propria patria, ma stava compiendo un fine più nobile: proteggere la sua stirpe, proteggere la sua discendenza!"



     
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    "Nessuno di noi aveva paura della morte. Nessuno. Avevamo dato tutto ciò che avevamo in corpo, combattendo senza alcuna riserva: sapevamo che gli dei immortali, soddisfatti, ci avrebbero aperto le porte del loro phanteon divino.

    Ora basta! Non c'è disonore più grande che scegliere la morte rispetto alla vita. Avete visto i vostri fratelli perire, non lasciate che l'odio e la vendetta accechino le vostre menti. Deponete le armi ed arrendetevi. Non abbiamo intenzione di uccidervi, non obbligateci a farlo. Non siamo dei tiranni, non abbiamo unito il mondo sotto un'unica bandiera per depredare le vostre terre e razziare le vostre case. Il nostro fine è più alto e solenne, fermatevi ed ascoltateci.

    Il suo esercitò si fermò. Che oltraggio. Ci stava insultando e disonorando: stava provando pietà e compassione per noi. Nella nostra cultura morire per mano di un nemico considerato più forte era onorevole, ma morire per mano di un nemico che ci scherniva prima di morire, considerandoci dei deboli, bhè, era un oltraggio imperdonabile.

    Chi di voi riesce ancora a respirare, alzatevi ed andatevene. Questo è il mio ultimo ordine, questa è la mia ultima volontà.

    Restammo tutti sorpresi. Come poteva il nostro comandante concordare con le parole di quel dannato Messia? Come poteva dirci di disertare il campo di battaglia dopo che i nostri fratelli erano periti per proteggerci? Dopo che avevamo visto con i nostri occhi le loro vite venire spezzate. Non potevamo abbandonare il nostro comandante, eravamo arrivati tutti insieme e tutti insieme avremmo cenato nell'Ade. Lui però insistette. Sapeva che non avevamo paura, sapeva ciò che covavamo nei nostri spiriti, sapeva che lo avremmo seguito sino alla morte ed oltre, ma non volle sentire alcuna ragione.

    Se siete sopravvissuti sino ad ora è perchè sarete chiamati ad un compito ancor più grande e glorioso in futuro. Non sprecate la vostra vita qui ed oggi, è chiaro che ormai non abbiamo più alcuna speranza di vittoria. Fate in modo che la nostra gente non si dimentichi di noi, fate in modo che in un futuro non molto lontano la nostra civiltà possa prosperare e risorgere di nuovo!

    Per quanto difficile da ammettere, aveva ragione. Non ci stava dicendo di arrenderci ne di sottometterci: ci stava invitando a riorganizzarci. Ma soprattutto, ci stava dicendo di lasciarlo solo: aveva scelto di morire, aveva scelto di sacrificarsi, aveva scelto di immolarsi per presentarsi alle porte degli dei come un martire coraggioso, un eroe di guerra, un mirabile exemplum per le generazioni future. Capimmo tutti quanti la sua scelta e nessuno di noi aveva intenzione di rovinare il suo momento finale, nessuno di noi voleva essergli di intralcio o rubargli la scena nel momento in cui il suo corpo avrebbe esalato l'ultimo respiro. Avremmo rispettato la sua decisione, avremmo rispettato il fatto che lui aveva deciso di andare incontro al destino."



     
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    "Lo lasciammo indietro il nostro comandante e lui, cuore impavido forgiato dal cuore dei ghiacci, ci diede una chance per fuggire, una chance che noi, vichinghi approfittatori, sfruttammo a pieno. Con tutte le forze che mi rimasero in corpo mi misi sulle spalle i corpi moribondi di due miei compagni. Erano in fin di vita e respiravano a malapena, ma per lo meno erano ancora vivi. Non so nemmeno dove trovai la forza e lo slancio per sollevarli, so solo che ripercorrere al contrario la strada che avevamo fatto per arrivare sino al castello, dando le spalle ai nemici, fu una delle cose più faticose ed estreme che ho fatto in vita mia. Ed è solo grazie al mio comandante se i nemici non ci misero i bastoni tra le ruote in quella folle discesa verso la spiaggia, verso la nostra nave. Ricordate quella nave che avevamo nascosto al di sotto del livello del mare? Come un'orca che sbucando dalle acque di avventa sulla sua preda, il nostro portentoso galeone sarebbe sorto dal mare per portarci in salvo. La sua inaspettata fuoriuscita stupì persino noi, oltre che le poche guardie che erano riuscite a sfuggire alla furia del nostro comandante. Ma quei pivelli non erano certo un problema per noi. Saltammo sulla nostra nave, la destinazione era una sola: la Fortezza di Vaygrjord, l'unica sola ed inespugnabile fortezza irraggiungibile se non dai soli Vaygr purosangue. Lì ci saremmo riorganizzati, lì ci saremmo preparati alla vendetta, li ci saremmo preparati a risorgere!"

    Le mani cominciavano a tremargli. Basta scrivere per oggi, basta rammentare fatti cotanto dolorosi e pungenti. Aveva bisogno di una pausa, aveva bisogno di mangiare. Aveva deciso di scrivere quel libro per far si che la storia non si dimenticasse dei suoi fratelli, per far si che la sua gente rammentasse dell'eroico quanto sacrificale atto compiuto da quei 666 guerrieri, ma soprattutto perchè lo aveva promesso a quel guerriero dal grande scudo che gli aveva salvato la vita. La progenie dei Vaygr si sarebbe dovuta scolpire nel cuore i nomi di quei leggendari guerrieri che, partiti senza nessuna speranza, avevano deciso di sfidare il nemico e gli avevano fatto tremare le gambe, infliggendogli un colpo sferzante laddove nessuno avrebbe mai osato spingersi.

    Scrivere vi assicuro che era davvero difficile per lui, ben più di prendere parte ad una guerra. Sudava mentre scriveva ed era una faticaccia immonda, soprattutto perchè con i badili che si ritrovava al posto delle mani era estremamente arduo per lui tenere tra le dita qualcosa di così piccolo come una penna di volatile imbevuta di inchiostro. Le sue mani erano più adatte a brandire enormi asce. Inoltre il suo stile di scrittura non era nemmeno eccelso, ma puntava a portare quel libro a qualche scriba che avrebbe potuto ampliarlo e riscriverlo con toni più epici e sublimi.

    Prima di fare ciò però avrebbe dovuto riportare il massiccio scudo del suo amico, lo scudo che gli aveva salvato la vita, indietro alla sua famiglia. Infatti prima di correre via verso la nave che gli aveva salvato la vita, aveva recuperato dal campo di battaglia quello scudo bucato e la targhetta che il suo fratello guerriero portava al collo, una targhetta su cui era inciso il nome della sua isola di origine e della sua famiglia. Avrebbe solo dovuto cercarli e sapeva anche dove, ma prima doveva aspettare che l'inverno passasse e le nevi gli permettessero di fare un passo al di fuori della sua baracca.

    Lui infatti, a differenza degli altri, non era andato sino a Vaygrjord, ma era sceso prima dal galeone. Rinchiudersi in una fortezza lo aveva reputato poco utile. Aveva preferito tornare a fare il vagabondo per diversi anni, nascondendosi tra le vette innevate delle isole attorno a Neithlung per riprendersi dalle ferite subite ed allenarsi. Il suo obiettivo era di tornare a Vaygrjord quanto prima possibile, ma non da solo. Erano stati decimati ed avevano bisogno di un nuovo esercito, pertanto prima avrebbe raccolto degli alleati, qualcuno che come loro Vaygr purosangue odiava l'impero ed era pronto a tutto pur di combatterlo. Sarebbe tornato a Vaygrjord insieme ad un nuovo esercito e per fare ciò era anche disposto a mettersi in viaggio per il mondo, era anche disposto ad uscire dai confini della sua gelida ed amata landa.



     
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    Ruolata molto interessante, soprattutto per come mostri che cosa è accaduto e perché Ukon sia così fissato con la vendetta.
    Dai una ottima visione di com'era e com'è la vita a Vayrg. Personalmente ho letto tutto d'un fiato e mi sono emozionato molto.
    Passiamo ora alla valutazione tecnica:

    CITAZIONE
    Scrittura: 2
    Testo ben scritto con uno stile di scrittura ricercato. Ho letto in passato tue ruolate ed hai sempre usato uno stile particolare.
    Interpretazione 2
    In realtà si vede poco di Ukon e più del suo passato, ma quando parli di lui o ci fai vedere determinate azioni o sentire certe sensazioni, sei molto chiaro.
    Strategia 0
    Non ci sono scontri tali da poter essere valutati, né sono presenti situazioni "strategiche" da valutare.
    Bonus/Malus
    +1 Lunghezza

    Totale: 5 Exp

    Esperienza valutatore: +1 Exp e 100 Gold
     
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