Zac! Zac! Zac!
Era il crepuscolo, la notte si avvicinava. Il freddo e sferzante vento si faceva più pungente ed intenso, probabilmente a breve sarebbe sopraggiunta l'ennesima tempesta di neve, ormai era inverno inoltrato e le temperature erano costantemente sotto lo zero, tutto il giorno, tutti i giorni, anche quando il sole picchiante, fattosi lago tra i banchi di nebbia, batteva in cielo. A quella latitudine non si scherzava, in pochi potevano vantarsi di sopravvivere in condizioni simili, al limite dell'umana sopportazione. Lui era uno di quelli. Mentre il vento si infrangeva sul suo colossale e possente corpo ricoperto da una pesante pelliccia d'orso, lui incurante, menava colpi netti e decisi con la sua enorme ascia per tagliare la legna. L'avrebbe usata per riscaldarsi. Con i muscoli tesi portava la sua arma al cielo per poi lasciarla discendere con violenza e veemenza, quasi fosse una mannaia decapitatrice: infondo anche questo era un allenamento per tenere il corpo caldo e i muscoli pronti. Quel gelo lo aveva temprato nel corso della sua vita, aveva reso il suo fisico incedibile, inarrestabile, una vera e propria macchina da guerra alta quasi due metri e talmente mastodontica da poter essere tranquillamente definita una montagna umana. I suoi muscoli erano gonfi, le nervature definite, robuste, capaci di sopportare carichi inumani. Una pallida luna che cominciava a farsi largo tra le nuvole illuminava con la sua fioca luce l'intonaco rosso con cui soleva pitturare la sua pelle. Il colore del sangue, il colore della furia, il colore della lotta. Era una pittura tribale che veniva tramandata da lungi nella sua gente.
Si fermò. Era ora di rintanare prima di venire travolto. Il suo era un rifugio di fortuna, una baracca abbandonata in mezzo alla foresta, dimenticata da tutto e da tutti, lontana chilometri dal primo centro abitato, forse un vecchio riparo per cacciatori o nomadi ormai in disuso. Sinceramente non gli importava, ci era cresciuto in quelle zone, ci aveva passato una vita intera ai piedi di quelle montagne e sulle cime di quelle aspre vette ergo non ne era spaventato. Li conosceva meglio dei palmi delle sue mani, meglio delle rughe che aveva in fronte, meglio delle cicatrici che portava sullo statuario petto. Amava la solitudine, aveva errato per quei luoghi tutta la vita, aveva raccolto tutte le sfide che gli avevano offerto. Allo stesso tempo però andava orgoglioso di essere un Vaygr, un guerriero istruito alle armi ed alla guerra sin dalla tenera età, un condottiero valoroso che non aveva timore di nessun nemico, che non aveva timore di cadere in battaglia, che non era mai stato ferito di spalle, che sprezzante del pericolo si gettava nella mischia e martellava e tramortiva con colpi furenti ed irrefrenabili... ecco perchè quella sconfitta gli bruciava, gli bruciava così tanto, gli bruciava più delle escoriazioni che il giacchio poteva causare, più di una lama che poteva trafiggere la sua carne, perchè sì, sebbene fosse un gigante dalla forza inaudita, dalla pelle dura e dall'istinto bestiale era comunque un uomo. Il sol pensiero gli fece accigliare lo sguardo, uno sguardo già di per sé grottesco e truce.
Sbatté la porta dietro di se per poi alimentare il fuoco buttandoci sopra i tronchi appena tagliati. Si sedette e cominciò a sorseggiare la sua birra mentre lo scoppiettio delle fiamme faceva da sottofondo. Era una bevanda di cui abusava nel periodo invernale, ma che inevitabilmente doveva sorseggiare per trovare ristoro e calore. Come detto, lui era un solitario, forse perchè aveva modi più animaleschi che civili. Rozzo, bruto e crudo era un duro sia sul campo di battaglia che nella vita di tutti i giorni. Quando lottava dava tutto se stesso, schiacciava per non essere schiacciato e in modo brutale finiva i suoi avversari, senza risparmiare un colpo del proprio arsenale. Ciò nonostante portava molto rispetto per il nemico, per questo dava il massimo: dal suo punto di vista chi moriva per mano di un condottiero audace e valoroso otteneva comunque una morte gloriosa e poteva aspirare a raggiungere il phanteon degli dei immortali.
Eppure la sua furia distruttiva non era bastata, non quella volta, non quella notte. Troppi compagni aveva visto perire, troppi scudi spezzati dalle lance dei nemici, troppe giovani vite strappate ad un futuro di ascesa. I compagni in battaglia li considerava come fratelli, soprattutto se combattevano per un fine altissimo quale la protezione e la libertà della propria terra. Quando il sistema ninja vigeva ancora, lui non ne aveva mai fatto parte, ne si era mai interessato di politica o cazzate simili, ciò nonostante non aveva mai esitato a scendere in prima linea durante le guerre veramente importanti e sanguinolente, forse più per mettersi alla prova e per rispetto dei propri avi che per reale interesse nel proteggere le sue genti. Sapeva solo che quegli imperiali gli stavano sul cazzo e che avrebbe vendicato tutti i compagni periti per mano loro. Infondo nessun Vaygr era mai stato veramente un ninja, ne aveva capito perché quei bastardi fossero venuti ad impossessarsi delle loro terre. Lui era dell'idea che ogni popolo dovesse essere il proprietario di ciò che la natura gli aveva donato. Era un violento, vero, ma la sua violenza non era scellerata ed incontrollata come quella degli imperiali.
Sorseggiò la sua birra, gli occhi persi nel vuoto guardavano al di fuori della finestra mentre la sua mente tornava indietro... Quelle scene continuavano a passargli davanti agli occhi. Erano vive, più che vive. Si alzò, andò a sedersi davanti al libro...