Battesimo

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    Matricola

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    Il castello in cui alloggiava Hjördis, niente di più di una rocca desolata ai margini della città, era stato costruito ai tempi d'oro dei Varyag, quando il loro popolo primeggiava sull'isola e costruiva navi veloci ma robuste con grosse vele che avevano permesso loro di colonizzare le isole più meridionali, quelle che prendevano oggi il nome di Niethlung.
    Dopo l'evacuazione dell'arcipelago era rimasto vuoto per più di un secolo. Correva voce che alcune delle sue stanze, scolpite direttamente nel cuore della montagna o situate sulla cima di torrette inaccessibili, fossero abitate da antichi fantasmi di guerrieri e valchirie che si facevano udire nelle lunghe notti di tempesta con le loro urla e i loro richiami. Uno di essi, in particolare, era temuto dalla popolazione locale: quello della nonna di Hjördis, una Skjöldr portata alla cittadella per via di un matrimonio combinato, che si diceva avesse compiuto in quelle sale gelide e silenziose alcuni macabri rituali della sua razza, che comprendevano la resurrezione dei morti e il sacrificio di giovani fanciulli al dio della guerra.
    In verità il castello era rimasto semplicemente vuoto dopo che la linea di discendenza del clan si era assottigliata per via del conflitto con l'Impero e la famiglia di Hjördis, composta dal gemello, da sua madre e da suo padre, lo abitava da decenni senza che nessuno di loro avesse mai visto o udito nulla di strano.
    Le sale più vaste, progettate per banchetti e consigli di guerra, erano rimaste come i loro avi le avevano lasciate, abbandonate a loro stesse, con grossi arazzi appesi alle pareti di nuda pietra e ai trofei di caccia che proiettavano sul pavimento umido inquietanti figure che il sole del tramonto concorreva a rendere mostruose.
    La stanza in cui normalmente Hjördis alloggiava era una delle più piccole. Ciò dipendeva dal fatto che parecchie di esse erano rimaste sbarrate o chiuse dall'interno, cosa che ancora sconcertava Bärbel, allieva dell'Accademia dei Cartografi e degli Storiografi, giunta alla cittadella per motivi di studio e avvezza allo stile di vita più aperto e solare del continente. Il padre di Hjördis aveva acconsentito ch'essa avesse accesso alla grossa libreria al secondo piano, ricolma di tomi e pergamene di ogni tipo e provenienza, in modo che, traendo giovamento da cronache e verbali antichi quasi quanto il castello stesso, potesse mettervi anche un po' di ordine.
    Bärbel, in quanto Sàga e allieva di un istituto che aveva sede in una città imperiale, veniva spesso guardata con sospetto dai locali, ma il padre ne rispettava le ambizioni di natura accademica e tendeva inoltre ad avere posizioni meno rigide di altri sulla circolazione sull'isola di stranieri e imperiali.
    Un giorno, nel tardo pomeriggio, mentre lei riponeva spessi tomi sulle scaffalature logorate dal tempo e dall'incuria e Hjördis era impegnata a guardarla dalla poltrona in pelle logora nell'angolo più caldo e vicino al camino, si lamentò della scarsa regolarità e sistematicità con cui le cronache dell'isola erano state riportate e trascritte; i Varyag non eccellevano in quel tipo di arte, specie perché tra i clan più selvaggi storie e insegnamenti erano ancora tramandati oralmente di padre in figlio e l'educazione affidata a saggi e a sciamani.

    - Il nostro popolo, la nostra razza... E' davvero ossessionata dalla guerra. - Bärbel comprendeva spesso anche se stessa, tra i Varyag, per quanto molti Sàga preferissero ritenersi soltanto lontani cugini dei barbari che abitavano le isole più settentrionali. - Per generazioni non hanno fatto altro.

    - E cosa c'è di sbagliato? - replicò Hjördis, mentre giocherellava con un lembo della veste. La luce della candela sul tavolo conferiva all'amica dei connotati quasi spettrali. - A parte il fatto che le abbiamo quasi sempre perse tutte.

    - La guerra è un mezzo, non un fine. - Hjördis la osservò mentre richiudeva una grossa pergamena in cui aveva preso appunti per tutta la giornata. - La guerra serve ad imporre uno status quo. Celebrandola come scopo della nostra esistenza ci siamo condannati a una vita piatta, monolitica, in cui non c'è spazio per altro. Lo studio, il sapere, l'arte, la poesia.

    Bärbel adorava criticare lo stile di vita dei Varyag e in generale di tutti quei popoli che non avevano particolare interesse nello sviluppare attività che andassero oltre l'esercizio con la spada o la caccia. In questo andava molto d'accordo con Sören, il gemello di Hjördis, che rimpiangeva i tempi in cui il loro popolo aveva scritto poemi epici e saghe mitologiche e che invero avrebbe desiderato scriverne di nuovi. Da mesi provava a farsi strada spedendo bozze alle accademie di Florentia, senza alcun risultato.
    Naturalmente Hjördis non poteva contraddirla, anche se la caccia, la guerra e la violenza rappresentavano tutta la sua vita e tutto ciò a cui poteva aspirare.
    Suo padre, infatti, oltre a quel castello privo di valore, sperava di lasciare in eredità ai due figli anche il peso di una promessa che aveva fatto ai suoi antenati, ovverosia quella di riportare il loro clan agli antichi fasti e di onorare le tradizioni secolari dell'isola.
    E anche se lei era poco più di una bambina, all'epoca di quel giuramento, era già in grado di comprendere la diversità che la divideva dal suo gemello.
    Si era parlato molto di quella promessa a Vaygrjord, persino tra i villani; c'era chi sosteneva, sopratutto le donne, che non le si dovesse dar peso: non si mandava una ragazza a cavalcare assieme ai soldati e a tirare di scherma sotto la pioggia.
    Ma suo padre non l'aveva mai vista così e molti altri erano della sua stessa opinione. Del resto che Sören fosse un inetto solo perché non era in grado di impugnare una spada lo pensavano in molti. E la madre, da tempo affetta dalla stessa forma di pazzia che aveva colpito altre donne della famiglia, da anni non si faceva avvicinare dal marito e le possibilità di avere altri eredi, a meno di generare un bastardo, erano pressoché nulle.

    Più tardi, mentre lo scrittoio era avvolto dalle tenebre del crepuscolo, fecero l'amore su uno dei divani consunti lasciati invecchiare nella solitudine di quelle stanze. Quella che era nata come una forma di amicizia si era trasformata da tempo in un amabile gioco fatto di reticenze, di ripulse, di promesse spesso improbabili e tuttavia così genuine da sembrare reali.
    Hjördis la amava, ma sapeva che per Bärbel non c'era spazio per altro che per lo studio e l'ambizione di ricoprire, un giorno, una cattedra importante nel continente. Ciò che facevano in quelle stanze, quand'erano completamente sole, era per lei qualcosa di collaterale, che rivestiva un'importanza secondaria. A volte, mentre erano avvolte nel calore dei loro corpi, si chiedeva se davvero Bärbel non li considerasse altro che selvaggi dalle abitudini barbare e retrograde.
    Hjördis portava però con sé un po' di quel calore quando usciva a caccia, specialmente quando era da sola. E un pezzo di lei rimaneva lì, nelle roccaforti silenziose ma pur sempre civilizzate, in quel tepore e in quella tranquillità, e il viaggio le sembrava più facile.

    ___



    Quella notte il drago la visitò di nuovo in sogno.
    Una creatura di squame e di artigli, dotato di una malvagità senza pari, tanto intelligente quanto sfuggente. Si nascondeva da qualche parte a settentrione, nei crepacci in cui Hjördis non era ancora mai stata. Era proibito spingersi così in là nei mesi invernali; il clima rigido della Storfalla non risparmiava neppure i cacciatori più esperti e spesso non valeva la pena organizzare spedizioni così pericolose senza una valida ragione. Ai più giovani, come appunto lei, era del resto proibito allontanarsi da soli dalla fortezza. Anche se a quindici anni aveva cacciato e ucciso da sola un grosso orso delle nevi come esigeva la tradizione, non sarebbe probabilmente sopravvissuta un solo giorno tra i crepacci ai piedi delle montagne. Bastava mettere un piede in fallo per spezzarsi una gamba e morire assiderati.
    Eppure quel sogno guastava i suoi sonni da troppo tempo. Era come se le stesse lanciando una sfida.
    Due grandi occhi rossi la scrutavano dall'oscurità e lei rimaneva ipnotizzata dalla danza di luce di quei prismi sfaccettati, due gemme dal crudele bagliore rossastro là dove di solito le creature di questo mondo avevano gli occhi.

    ___



    L'occasione giunse qualche settimana più tardi, quando non si era ancora entrati nei mesi più duri dell'inverno.
    C'era stato un avvistamento, a qualche miglio dalla cittadella. Un mostro, avevano detto. Qualcun altro parlava di un gigantesco orso alto almeno quattro metri.
    Lo zio di Hjördis, Ottar, sapeva bene di cosa si trattava. Lì alla roccaforte comandava il gruppo di cacciatori e aveva più esperienza di tutti gli altri nella caccia a cavallo. Nonostante stesse entrando negli anni della vecchiaia rimaneva un guerriero stimato e onorato a cui si doveva portare rispetto.
    Non era particolarmente alto e nemmeno particolarmente robusto, dall'aspetto non sembrava nemmeno un guerriero, vestiva soltanto di pelli e al fianco portava due spade di metallo grezzo ma ben lavorato. Sulle spalle aveva un pesante scudo d'ossa, che si diceva provenisse dal corpo di uno yeti che aveva ucciso a mani nude quand'era solo un ragazzo. Il viso circondato da una spessa barba bionda era segnato dal tempo, dalle notti passate al freddo, dalla rigida vita militare e da un paio di orsi che lo avevano sfregiato durante uno dei tanti incontri ravvicinati terminati con la loro morte.
    Ottar era un Varyag piuttosto tradizionalista e aveva accolto con estremo disappunto il fatto di doversi trascinare Hjördis nella battuta di caccia, ma non aveva voluto discutere troppo con suo padre, che invece aveva insistito affinché lei vedesse il mondo e tutti i suoi pericoli.
    La spedizione sarebbe durata tre giorni e sarebbero tornati vittoriosi, con le pelli del mostro e le sue carni succulente da arrostire nelle lunghe notti gelate della cittadella.

    ___



    Hjördis non era del tutto estranea ai luoghi che si spingevano oltre i confini naturali delle foreste e del fiume che circondava la roccaforte.
    Certamente se si fossero trovati più vicino a casa, sulla costa, non avrebbe avuto bisogno di consultare le carte per sapere come si chiamavano quei posti, o per ricordarsi i nomi dei fiumi e dei loro affluenti che, qualche miglia più in là, si gettavano tutti nel grande lago ghiacciato che per le genti dell'isola aveva molti nomi - alcuni antichi, alcuni nuovi, alcuni magici.
    Il fatto di non avere una chiara nozione di dove stesse andando, di non conoscere i sentieri e di non avere strumenti per accertare la direzione erano motivi più che sufficienti perché Hjördis non si sentisse del tutto tranquilla.
    A questo si aggiungevano le sofferenze che le provocavano la sella, durissima, e il suo modo di cavalcare: nervoso, disattento, sgraziato. Il cavallo era stanco e entrambi non dormivano da ore, visto che la prima notte era riuscita a prendere sonno solo poco prima dell'alba.
    Dormire sul terreno bagnato in compagnia di uomini che conosceva appena - con suo zio Ottar aveva sempre avuto poco a che fare e gli altri due cacciatori, due giovani fratelli armati di arco e spada, li conosceva solo di vista - si era rivelato più difficile del previsto. E come sempre ad animare i suoi sogni c'erano sempre i due occhi maligni che la scrutavano e la chiamavano nel buio.
    Per questo e per altre ragioni il suo stato d'animo non era dei più allegri. I pasti venivano consumati in silenzio, spesso a cavallo oppure attorno a un fuoco, e non vi era traccia del clima cameratesco che animava solitamente le sortite tra compagni d'arme.
    Gunnar e Hakon, i due fratelli, erano poco più vecchi di Hjördis. Da quel che sapeva il più anziano dei due, Gunnar, aveva appena preso moglie. Entrambi vestivano i colori del loro casato - rosso e giallo - e per l'occasione avevano portato solo abiti di renna e un mantello di pelle di lupo, che si adattava bene al corpo e non faceva sudare anche durante grossi sforzi fisici. Diversamente gli abiti si sarebbero imbevuti di sudore e di notte sarebbero ghiacciati, senza asciugarsi mai più del tutto.
    Hjördis queste cose le sapeva, visto che aveva spesso accompagnato suo padre al posto del fratello durante le sortite nella steppa. Ma capì ben presto che una caccia alla volpe non poteva essere paragonata a quello che avrebbero dovuto affrontare in quell'occasione. E se Gunnar e Hakon cercavano in tutti i modi di sembrare amichevoli nonostante il clima poco piacevole, Ottar si rifiutava di rivolgerle la parola e passava quasi tutto il tempo a vomitare ordini ai due cacciatori.
    Per quanto Hjördis fosse robusta e avvezza alla vita militare, il tipo di scomodità causata dal viaggio nella steppa metteva a dura prova la sua resistenza fisica e mentale. Fin da quando erano partiti avvertiva infatti un fastidio intenso all'altezza del coccige causato dall'andatura del cavallo e quando si stendevano per riposare sentiva dolore in muscoli che neppure credeva di avere.
    In quei momenti comprendeva perché il padre avesse insistito affinché andasse con loro.
    Volevano vedere se Hjördis sarebbe riuscita davvero a cavalcare come un maschio, a dormire per terra, a portare per ore il peso della propria spada, a nutrirsi di bestie uccise lungo il percorso e di bacche gelate.
    La durezza di quella vita spingeva molti ad abbandonare Vaygrjord in favore di luoghi più ospitali; ma Hjördis era nata sull'isola, in lei scorreva un sangue antico, e tutto questo, per quanto le procurasse molte sofferenze, era ciò per cui era nata.
    Quando giunsero ai crepacci era passato da poco mezzogiorno. Ottar aveva qualche sospetto circa la natura degli avvistamenti dei giorni scorsi.
    Vi erano sull'isola creature antiche, nate tra i ghiacci prima di qualsiasi Varyag, e si diceva tra gli Skjöldr che si cibassero di orsi e di altri mostri più piccoli, ma che non disdegnassero la carne umana; avevano molti nomi che le genti del posto si rifiutavano di pronunciare ed erano in tanti a dubitare persino della loro esistenza. Il capo della spedizione non aveva invece alcun dubbio perché giurava di averne affrontato uno, molti anni addietro, durante una battuta di caccia nel nord dell'isola.

    - Sono creature molto intelligenti. Quasi diaboliche. Non hanno niente a che fare con gli orsi o con i lupi. - li avvertì allora, mentre scendevano da cavallo per continuare a piedi. - Non sottovalutatelo.

    - Mi chiedo perché si sia spinto così a sud. - fece Gunnar, che da ore portava sulla schiena una sacca con delle provviste. Lui e Hakon si davano il cambio perché non volevano che Hjördis si affaticasse più di quanto già non facesse. - In questa zona abbiamo incontrato parecchi animali. Il cibo non gli manca.

    - Se ha provato la carne umana ne vorrà altra.

    E con ciò Ottar concluse quella conversazione, l'ultima che ebbero prima di scendere lungo i crepacci del ghiacciaio.

    ___



    Gli unici rumori provenivano dai loro passi sul terreno scivoloso e quello del vento tra le fenditure del crepaccio. Il ghiaccio ora premeva sui confini del sentiero come una solida muraglia, fin quasi a sporgere sopra di loro, cosicché persino la luce del pomeriggio appariva gelida, asettica, densa come burro fuso.
    Camminavano da pochi minuti quando Hjördis credette di scorgere, poco lontano, una sagoma che si muoveva tra i ghiacci.
    Questi a volte producevano ombre lunghe e inquietanti, specie in quel periodo dell'anno in cui la notte calava rapidamente sulle grotte pedemontane. Dovevano sbrigarsi o l'oscurità sarebbe stata totale.
    Ottar procedeva davanti a tutti a spada sguainata. Hakon aveva il compito di chiudere la fila, mentre gli altri due seguivano il loro capo con una buona dose di paura nel cuore.
    Più di una volta Hjördis pensò di aver visto qualcosa; ma si trattava per lo più di autosuggestione, sicché non disse mai nulla. Era convinta che anche gli altri avessero l'impressione di essere seguiti, quasi fossero loro ad essere cacciati, e non il mostro senza nome.
    Giunsero a un cumulo nel mezzo del nulla che qualche cacciatore o esploratore Skjöldr doveva aver eretto per segnalare che il percorso era già stato battuto in passato. Ottar lo esaminò brevemente prima di fare segno di continuare.
    Fu in quel momento che si ritrovarono un pesante ammasso di carne e muscoli a pochi millimetri dalla faccia, molto più alto di quanto lo avessero descritto, con due zanne che brillavano alla luce gelida del crepuscolo. Gli bastò un colpo per gettare a terra Ottar, che si era difeso con lo scudo d'ossa, e un altro per infilzare Hakon, poco lontano da Hjördis.
    La giovane sentì il puzzo di sangue e di pelliccia bagnata.
    Un attimo dopo la creatura era sparita, sprofondata nella neve. Il cacciatore, attonito, cadde sulle ginocchia mentre fissava, incapace di parlare, il buco che i grossi artigli gli avevano piantato nello stomaco; Gunnar fu subito da lui ma era chiaro che non c'era altro da fare.
    Hjördis estrasse l'arco, incoccò una freccia. Il cuore le stava uscendo dal petto e credeva di essere sul punto di scoppiare in lacrime.
    Udì dietro di lei il rumore della neve pressata e, voltandosi, si ritrovò davanti a una specie di orso dotato di due spesse corna e dal muso allungato, simile a quello dei lupi dei ghiacci. La pelliccia candida era sporca di sangue e un tripudio di artigli e zanne affilate si preparavano a fare di lei il suo prossimo pasto.
    Hakon la spinse via, parò il colpo come poté, dopodiché indietreggiò e lei cadde a terra, investita da circa trecento chili di muscoli che caricarono su di loro per farli a pezzi. L'uomo fu il secondo ad essere ucciso. Il mostro aprì le sue enormi fauci e gli strappò la testa dal corpo senza alcuna apparente difficoltà, masticandola un poco e poi risputandola fuori. Hjördis percepì il suo fiato che puzzava di zolfo e di carne avariata e avvertì distintamente i calzoni, là sotto, che si stavano inumidendo.
    Fu Ottar a scagliare un paio di frecce nel corpo della creatura dei ghiacci, che emise un urlo diverso da quello di qualunque bestia che avessero mai incontrato nella Storfalla, cosicché lei si scrollò di dosso quel che rimaneva del cacciatore e con evidente difficoltà cercò di strisciare via tra la neve che si era allordata di sangue e budella.
    Prese nuovamente la mira e scagliò una freccia che colpì il mostro dritto nel petto. Ma le tremavano le mani e credeva di essere incapace di muoversi. L'aria era talmente rarefatta da faticare ad entrare nei polmoni.
    Il Varyag aveva estratto la spada e stava facendo il possibile per tenere testa all'incredibile velocità del mostro. Questo si muoveva con una rapidità e una precisione ignota a buona parte delle creature della steppa. Lanciò un grido che gelò il sangue nelle vene della giovane, dopodiché caricò di nuovo e sbatté Ottar su una parete di ghiaccio con una violenza tale da spezzare lo scudo d'ossa.
    A quel punto si voltò verso la ragazza, l'unica preda che ancora non aveva assaggiato.
    Si guardarono negli occhi e Hjördis seppe di avere a che fare con un essere intelligente. Al posto degli occhi aveva due rubini che riflettevano la luce dei crepacci e che sembravano in grado di penetrare nell'animo delle sue vittime tanto quanto i suoi spessi artigli d'acciaio.
    Ottar urlò di colpire e lei si alzò, come in sogno, si preparò, scagliò la freccia. E ancora. E ancora. Ben presto a Hjördis cominciò a fare male il braccio e la schiena per quel ritmo micidiale da cui tuttavia dipendeva la sua sopravvivenza. Per questo non le importava. Sentiva scorrere dentro di sé l'adrenalina, era completamente in preda a un terrore muto, che non aveva nulla di eroico.
    A un certo punto cercò di emulare Ottar gettandosi sul mostro a spada sguainata per cercare di caricarlo e di colpirlo alle zampe inferiori mentre l'uomo lo teneva occupato sull'altro versante, ma non ebbe successo perché incespicò nei cadaveri di Hakon e di Gunnar e per poco non si consegnò direttamente sugli artigli pronti a infilzarla.
    Il puzzo di morte, di carne viva, era talmente forte che se non fosse stata occupata a non farsi uccidere avrebbe probabilmente vomitato. Il capo della spedizione, ridottasi a due individui, faceva il possibile per tenere a bada il mostro, ma a Hjördis fu chiaro che il loro destino era segnato. Non avevano vie di fuga, risalire il crepaccio era troppo complicato da soli e comunque sarebbero stati troppo lenti per sfuggire alla sete di sangue della creatura. Scendendo laggiù avevano commesso un grossolano errore di valutazione, consegnandosi direttamente nelle mani del loro carnefice.
    A quel punto, rapido com'era arrivato, il mostro scomparve nella neve, lasciandoli a bocca aperta.
    Si voltarono da una parte all'altra e solo allora realizzarono di essere in una situazione davvero disperata. Ottar non cercò nemmeno di scalare il crepaccio da solo. Si guardò intorno stringendo la lama nella mano destra, i muscoli pronti a reagire.
    Il fatto che la creatura apparisse e sparisse a piacimento li portò a credere di avere a che fare con un essere magico, stregato, forse maledetto. Di storie su quel genere di mostri ne circolavano tante, ma si trattava solo di mezzucci per spaventare i bambini attorno al fuoco. A Hjördis tremavano le gambe ed era sicura che non sarebbe sopravvissuta a un secondo attacco.
    Quando riapparve incoccò una freccia più per istinto che per altro, dopodiché avanzò nella luce grigia del crepuscolo e assieme a Ottar scagliò un dardo diretto al muso della creatura. Il suo sangue era scuro e denso, quasi nero.
    Un urlo devastante li fece gelare lì dove si trovavano, dopodiché, sporca del loro stesso sangue, la creatura avanzò e si preparò a divorarli. Ottar cercò di scansare l'attacco, Hjördis frappose fra sé e il mostro la lama, che penetrò a fatica nelle sue carni che parevano anch'esse fatte di ghiaccio e puro muscolo.
    A quel punto anche l'uomo la emulò, approfittando di quel momento in cui la creatura, sorpresa di essere stata infilzata, aveva abbassato la guardia. Servirono parecchi colpi di spada perché il Varyag riuscisse a staccarle la testa dal corpo, che poi rotolò a terra con un tonfo sordo.
    L'enorme massa precipitò allora per la forza di gravità sopra la giovane arciera, che per poco non ne rimase investita.

    Si guardò le mani, poi il corpo.
    Insozzata del sangue del mostro, del proprio e di quello dei suoi compagni morti, Hjördis era sopravvissuta.

    ___



    - La tua è stata fortuna, la loro... una disgrazia. - concluse Ottar, mentre sistemava il panno sull'erba bagnata. Ancora dodici ore di viaggio, forse meno, e sarebbero arrivati a casa. Hjördis non vedeva l'ora di stendere i piedi davanti al camino e dimenticarsi presto di quel che aveva visto in quel crepaccio, ma l'uomo aveva insistito perché dormissero almeno un po'. In effetti erano entrambi stremati dal viaggio e dal combattimento, inoltre avevano dovuto trascinare i corpi dei loro compagni con l'aiuto dei cavalli, non se l'erano sentita di lasciarli nei crepacci. - Un errore simile non si ripeterà.

    - La nostra. La nostra è stata fortuna. - Hjördis sapeva che non conveniva cercare di correggerlo. - Che cos'era quella... cosa? Com'è possibile che un mostro simile dimori su quest'isola?

    Il cacciatore le rivolse un sorriso pieno di amarezza. - Su quest'isola ci sono cose terribili, bambina mia. Ecco perché è meglio che le ragazzine come te restino a casa, quando gli uomini rischiano la vita qui fuori.

    Non disse che, così posta, quell'affermazione sembrava far ricadere la colpa della morte dei due giovani cacciatori su Hjördis e la sua inesperienza, quando, secondo il suo parere, la loro morte era stata puramente accidentale. Al posto loro avrebbero potuto esserci lei e Ottar, anche se - e lei se lo ricordava bene - sia Hakon che Gunnar si erano frapposti tra lei e il mostro per difenderla. Ed erano morti.
    I due consumarono il loro pasto il silenzio. A Hjördis pareva che il pane sapesse di sangue e di metallo e non riuscì a finire la sua porzione. La carne non la toccò nemmeno.
    Ottar bevve una quantità di liquore ben superiore a quella prevista per una sortita notturna di quel genere. Ma la notte era fredda e il vento aveva ripreso a soffiare da nord, Hjördis non poteva fargliene una colpa se aveva deciso di mettere qualcosa di caldo nello stomaco.

    - Tuo padre ha detto che ti avrei dovuto portare a tutti i costi. - fece allora. Aveva la voce roca, impastata dall'alcol. - Sostiene che suo figlio sia un incapace e ripone in te tutte le sue speranze. - Hjördis non rispose. Non aveva alcuna intenzione di parlarne in un momento come quello. Inoltre per poco non si mise a ridere al pensiero dell'eredità paterna: un mucchio di pietre senza valore e un nome senza alcun significato. - Io dico che se avesse avuto più polso avrebbe messo tutti al loro posto. Tua madre, una pazza, e tuo fratello, che passa le giornate a comporre versi come un finocchio. - Scosse la testa in segno di diniego. - Tutto ciò è ridicolo.

    - Perché? - fece allora Hjördis, con somma sorpresa di Ottar, che forse aveva voglia di litigare. - Perché ridicolo?

    - Due dei miei uomini sono morti, oggi.

    - Non li ho uccisi io.

    A quel punto capì. Non era avvezzo a riportare alle mogli della cittadella i corpi senza vita dei suoi cacciatori. Era una questione d'onore. Una promessa ch'egli, in quanto capo, faceva loro ogni volta che li strappava dal calore delle loro case. - Avresti dovuto esserci tu, al loro posto. - affermò, gelido.

    - Perché?

    - Perché per te è un gioco, una sfida! - Ottar si era levato in piedi, il viso reso gonfio dall'alcol e dalla stanchezza. - Tuo padre ti ha tirato su come un maschio perché l'altro suo figlio è un inetto, ma non si tratta che di un gioco. Di uno strappo alla regola. Andare a caccia di volpi o di renne è divertente. Lo fanno molte delle nostre donne , perché sono forti e temprate nel carattere, non come le sciacquette di Florentia o di Neagora. - Fece una pausa, abbassando la voce. - La caccia, quella vera, è un'altra cosa. Non puoi portarti appresso una donna che poi gli altri si sentirebbero in dovere di proteggere. - Hjördis si morse il labbro, sapendo che lui stava rivoltando il coltello nella piaga. - Hai causato tu la loro morte, anche se indirettamente!

    - La loro morte è stata causata dalla tua negligenza! - La giovane strinse i pugni e tese i muscoli del viso. - Ci hai condotti tu in quel crepaccio, se non...

    A quel punto lo vide caricare verso di lei, schiumante di rabbia.
    Hjördis comprendeva che il loro capo era stato ferito nell'onore e rivolgergli un'accusa simile era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Le mollò un ceffone talmente forte da farla cadere in terra, dopodiché se lo sentì addosso che la colpiva con i suoi spessi pugni grossi quanto due arance.
    Il fallimento della spedizione, se così si poteva definire, era stato dipeso dalla presenza di una creatura sovrannaturale di cui nessuno aveva alcuna informazione, e questo lo sapevano entrambi. Ma la stanchezza, l'umiliazione, la rabbia avevano preso il sopravvento su Ottar, che ora colpiva la giovane cacciatrice come se si fosse trattato di un altro animale da abbattere.
    Lei, ancora disorientata per la caduta, non era in grado di inspirare aria nei polmoni tanto era la pressione che il corpo di lui esercitava sul suo addome. Dopo qualcuno di quei pugni micidiali, Hjördis avvertì distintamente di essere sul punto di svenire.
    Fu allora che lo sentì muoversi sopra di lei, come se si stesse togliendo il pesante mantello di pelle di lupo. Lo vide scivolargli via dal corpo ma aveva la vista annebbiata e non riusciva a capire che diavolo stesse succedendo. Fu quando cominciò ad ansimare sopra di lei che le fu chiaro quel che stava tentando di fare.
    Lo sentì armeggiare con i calzoni, poi avvertì la morsa del gelo sulla pelle nuda, poco sotto il ventre, e le braccia di Ottar che premevano sulle sue per tenerla ferma.
    Dal collo di lui, da una collana di metallo, pendevano due enormi gemme rossastre che, alla debole luce del fuoco, rimandavano inquietanti riflessi. A Hjördis ricordarono due grossi occhi che la fissavano nell'oscurità.
    Fu allora che si dimenò, riuscendo a svincolarsi e piantandogli i denti nel collo. Lui urlò di dolore e di rabbia.
    Quindi, come se si fosse destato improvvisamente da un sogno, alzò il busto fissando un punto indeterminato nello spazio davanti a lui, poi abbassò lo sguardo su Hjördis, adesso conscio di quel che aveva fatto.
    Fece per aprire bocca, ma la spada di lei gli penetrò il fianco con un movimento breve ma efficace, lasciandolo senza fiato.
    Quando cadde in avanti la ragazza non ebbe modo di scansarsi, ma rotolò via come aveva fatto in precedenza, quando aveva dovuto scrollarsi di dosso il corpo del suo compagno ucciso dalla creatura, e annaspò tra il fango e la neve che, depositatasi la notte precedente, non si era ancora sciolta.

    Rimase immobile a lasciare che l'aria gelata le graffiasse la gola.



    Come detto altrove, la giocata vuole essere un'introduzione al personaggio, una specie di esercizio di rodaggio per una serie di idee confuse che avevo al momento della creazione della scheda, assieme a tutta una serie di suggestioni fornite dalla lettura dell'ambientazione e di giocate di altri utenti.
    In questo senso spero di non aver commesso troppi errori nella rappresentazione del mondo di gioco.
    Come spesso accade sono partita con alcune intenzioni ben precise per poi finire a fare tutt'altro. Pazienza. Io senz'altro mi sono divertita e adesso ho le idee un po' più chiare.
    Mi auguro che non sia troppo lungo o noioso da leggere!
     
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    Ruolate di Varyag simil norreni sono tante in questo forum e io sono la persona che le apprezza di meno a causa di quello che ho studiato e fatto nella vita, ma ovviamente valuterò in maniera oggettiva, per quanto possibile. Quando hai citato Florentia e Neagora alla fine della storia mi sono ricordato di essere in questo GDR e di non stare leggendo un racconto fantasy generico, ma essendo il tuo primo post qui, può starci.
    Ti dico subito, per migliorare la leggibilità, di fare più post invece che farne uno singolo e lunghissimo. Aiuta la lettura e conferisce pause che puoi vedere come "capitoli".
    Secondariamente, se non sai come si fa te lo spieghiamo, per le prossime autogestite magari prova a inserire qualche immagine. Essendo un GDR by forum aiuta molto vedere una rappresentazione visiva di un paesaggio appena descritto, così come il volto di un personaggio o una creatura.
    Comunque per il resto nulla da dire.
    CITAZIONE
    Base +2
    Scrittura 2
    Buono stile, raffinato e scorrevole. Continua così.
    Interpretazione 1
    Il pg c'è e se ne percepiscono i sentimenti, i png invece sono piuttosto indistinti e la stupidità di Ottar alla fine forse è un po' eccessiva.

    Vorfreude +5 exp
    Gh0st +1 exp +100 gold
     
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1 replies since 15/11/2018, 19:34   64 views
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